Cosa aspettarci dai “Gregari” messi in lista

di Alessandro Campi
Domenica 5 Maggio 2024, 23:04 - Ultimo agg. 6 Maggio, 06:00
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La decisione di diversi leader di partito (da Giorgia Meloni a Matteo Renzi, da Elly Schlein a Antonio Tajani, per finire con Carlo Calenda) di candidarsi per le elezioni europee ha uscitato molte polemiche e prese di posizione. Alcune comprensibili e fondate, altre strumentali e moralistiche. Tutte nel complesso inutili e fuorvianti.

I critici hanno fatto notare che si tratta di un cattivo costume tutto italiano: nelle altre nazioni in effetti non accade che scendano in campo così massicciamente segretari di partito, ministri o addirittura capi di governo. Chi si fa eleggere sapendo che non andrà mai a Bruxelles, per scelta o per incompatibilità, sbaglia in primis nei confronti dei propri sostenitori, ai quali si chiede una fiducia che non si potrà personalmente onorare. Ma c’è anche chi ha considerato questa scelta del tutto legittima. Quando si va alle urne l’obiettivo di ogni partito è sempre il massimo del consenso. Un capo di partito deve valutare per prima cosa la convenienza della sua particolare comunità politica: se candidandosi ritiene di trarne un vantaggio dal punto di vista elettorale dove sta il peccato? Quanto ai cittadini, più smaliziati e accorti di come li si dipinga in modo spesso paternalistico, sanno perfettamente come stanno le cose: dunque, nessun inganno.

C’è poi, secondo alcuni, una giustificazione per così dire tecnica alla base di questa decisione. Le cinque enormi e dispersive circoscrizioni in cui è diviso il territorio italiano impediscono ai singoli candidati di fare campagna elettorale fuori dal loro territorio di riferimento. La presenza nelle liste di un leader nazionale nel ruolo di acchiappavoti serve dunque per creare un effetto di trascinamento. Ma anche per dare al voto una maggiore caratterizzazione politica, sulla carta utile a contrastare la tendenza all’astensionismo tipica del voto europeo. Naturalmente, ci sono anche leader che hanno deciso di non scendere direttamente in campo. Ma non l’hanno fatto, come vorrebbero far credere, per eccesso di virtù, ma a loro volta per ragioni (legittime anch’esse) di opportunità e convenienza. Hanno preferito non contarsi personalmente nelle urne in questa fase politica – come nel caso di Giuseppe Conte. Oppure hanno preferito affidare ad altri il ruolo di persuasore sul piano politico-mediatico – come ha fatto Matteo Salvini con la candidatura del generale Vannacci.

Tutto ciò detto, l’accesa discussione di questi giorni sui leader candidati a un posto che non occuperanno è servita soprattutto a distogliere l’attenzione dal vero problema di queste elezioni: la qualità del personale politico che andrà a rappresentare formalmente l’Italia in Europa. Con che criterio sono stati scelti i candidati e, soprattutto, i potenziali eletti al Parlamento europeo? Si è pensato al delicato e difficile lavoro che dovranno fare in Europa o li si è scelti con criteri, per così dire, domestici, guardando cioè agli equilibri che governano la politica interna?

L’Italia, come è noto, ha insieme alla Grecia il tasso più alto di ricambio negli eletti a Bruxelles da un’elezione all’altra. Ciò significa una cosa semplice: quello di parlamentare europeo in Italia non è evidentemente considerato un ruolo politico meritevole di un impegno di lungo periodo. La politica che conta si ritiene sia solo quella nazionale. L’Europa è dunque vista come qualcosa a metà tra un ripiego temporaneo, nell’attesa di incarichi di maggior prestigio politico, e un’esperienza certamente utile ma solo se di breve durata: un po’ esilio dorato, un po’ stage formativo all’estero.

Inutile dire che si tratta di un doppio e grave errore, che basta da solo a spiegare la storica difficoltà dell’Italia a far sentire la propria voce nelle negoziazioni e nelle trattative politico-burocratico-diplomatiche che sono il cuore del lavoro politico in Europa.

Innanzitutto, c’è un problema di competenze, rapporti e conoscenze (tecniche ma anche personali) che si acquistano e consolidano solo facendo una lunga esperienza parlamentare. Modificare a ogni legislatura il grosso della propria rappresentanza, cosa che vale per tutti i partiti, significa dover ricominciare sempre daccapo. Senza contare la difficoltà, per i neo-eletti, ad assumere ruoli o incarichi di qualche importanza in commissioni e gruppi di lavoro, per i quali in Europa vengono giustamente preferiti i parlamentari di lungo corso.

Ma il vero problema è un altro. L’Europa è – e sempre più diventerà – il luogo dove si prendono le decisioni fondamentali sulle grandi questioni che toccano la nostra vita individuale e collettiva: dall’energia alla difesa, dall’ambiente all’alimentazione, dalla salute all’immigrazione. Disporre di un ceto parlamentare autenticamente “europeo” – qualificato, motivato, competente e, per quanto possibile, relativamente stabile – è il miglior favore che si possa fare, al tempo stesso, all’Italia e all’Europa: per difendere meglio gli interessi della prima, per potenziare attività e obiettivi della seconda. Quella del ricambio dei rappresentanti a ogni turno come sinonimo di vitalità rischia di essere, soprattutto se applicata all’Europa, una mitologia negativa intrisa di ipocrisia: l’esercizio di una pratica spartitoria o redistributiva dettata dalla ragion di partito dietro la quale peraltro si nasconde una sfiducia malcelata nell’Europa o, peggio, una colpevole incomprensione del suo ruolo politico-istituzionale effettivo. Il fatto che tutti parlino delle elezioni del prossimo giugno come di un appuntamento storico o epocale non fa che aggravare il problema. Siamo infatti dinnanzi a cambiamenti e scelte davvero dirimenti. L’Europa è nel pieno di una fase costituente che la porterà ad esempio a potenziare il ruolo di iniziativa legislativa del Parlamento. È in atto l’ulteriore allargamento dei confini dell’Europa verso i Balcani. C’è la possibilità che dopo il prossimo voto cambi la maggioranza che ha sin qui guidato l’Unione (improbabile l’esclusione dei socialisti, possibile l’allargamento ai conservatori).

E ancora. C’è da decidere, con riferimento al conflitto russo-ucraino, tra la posizione interventista à la Macron e l’atteggiamento più prudente e negoziale caldeggiato dai governi tedesco e italiano: questione che implica anche come ridefinire l’alleanza con gli Stati Uniti. Si sta discutendo su come europeizzare sempre più il voto dei cittadini europei (a partire dalla creazione una circoscrizione elettorale sovranazionale) e su come armonizzare le diverse procedure elettorali attualmente adottate nei diversi Stati membri. C’è da trovare una soluzione autenticamente comune al problema altrimenti esplosivo dell’immigrazione. Si sta ragionando su come mantenere competitiva l’Europa, sul piano economico e tecnologico, dinnanzi agli altri grandi e assai agguerriti attori internazionali.

Se questo è lo sfondo storico, se queste sono le sfide politiche che ci attendono nel prossimo futuro, sicuri che l’Italia si appresta a mandare in Europa, tra uomini e donne di ogni colore politico, il meglio delle sue forze ed energie come sarebbe necessario e auspicabile? Insomma, il problema non è quello dei leader di partito che non andranno a Bruxelles una volta eletti ma quello dei loro gregari che siederanno in Parlamento per nostro conto per i prossimi cruciali cinque anni. Cosa possiamo aspettarci?

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