Morto a Bruno Latour, addio al filosofo della crisi ecologica

Morto a Bruno Latour, addio al filosofo della crisi ecologica
di Elisabetta Moro
Lunedì 10 Ottobre 2022, 07:54 - Ultimo agg. 16:42
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Bruno Latour ha studiato la «tribù dei burocrati». Ha trasformato il Consiglio di Stato francese nel suo terreno di ricerca. In un'isola nella corrente del diritto. E come un esploratore si è immerso nel farsi e disfarsi dei faldoni, delle procedure, delle carriere e delle lobby, per capire come funziona la «fabbrica delle leggi». Ne è nato un nuovo modo di fare antropologia della nostra stessa società. È questo uno dei maggiori lasciti del celebre intellettuale francese scomparso ieri a Parigi all'età di 75 anni.

Latour è stato definito uno dei dieci pensatori più influenti al mondo. Il suo approccio eclettico e personalissimo da principio ha fatto storcere il naso a molti, ma lui è andato dritto per la sua strada, mescolando con originalità le scienze umane e le scienze dure, la filosofia e la biologia, la sociologia e la genetica. Ha seguito fino alle più estreme conseguenze l'insegnamento di Michel Foucault, secondo cui bisogna prendere le distanze da sé stessi, per abbandonare gli schemi mentali con i quali siamo cresciuti e immaginare nuovi sviluppi del pensiero. Così, per mostrare il suo spirito militante, il pensatore eccentrico nato a Beaune in Borgogna il 2 giugno del 1947 da una famiglia di celebri vignaioli, portava sotto le scicchissime giacche di tweed una maglietta con su scritto «I filosofi sono sul sentiero di guerra». Un avvertimento e al tempo stesso una speranza. Quella di poter disancorare l'Occidente dal suo modo di intendere la realtà come se esistesse davvero una separazione netta tra natura e cultura, tra habitat e società, tra umano e non umano.

Racconta in uno dei suoi libri più celebri, Non siamo mai stati moderni del 1991, che quelli che chiamiamo fatti sono sempre delle costruzioni sociali.

Perciò vanno analizzati come fanno gli etnografi quando studiano le popolazioni lontane. Cercando di capire le credenze, le istituzioni, i miti che nelle retrovie dell'immaginario hanno fatto in modo che una certa cosa venga percepita come un fatto, cioè come un dato oggettivo. Con questo metodo studia anche la «tribù degli scienziati», dimostrando quanto le loro scoperte non siano semplicemente il reperimento della verità sotto la coltre dell'ignoranza, ma la costruzione di una spiegazione che appaga il nostro bisogno legittimo di capire ciò che ci circonda e ci accade. Il suo approccio ha destabilizzato i cercatori di certezze, ma ha entusiasmato i fautori di nuove strategie per interpretare e governare il mondo di oggi. Tanto che i suoi saggi più recenti Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, La sfida di Gaia e Riassemblare il sociale, sono entrati immediatamente nella biblioteca degli ecologisti. L'idea portante è che la lotta al cambiamento climatico vada messa al centro delle azioni politiche. Ma al tempo stesso, il professore emerito all'Istituto di Studi Politici di Parigi e alla Scuola di economia e scienze politiche di Londra, rifuggiva le teorie correnti secondo cui l'uomo è l'unico colpevole di tutto.

Per esempio, nel caso del buco dell'ozono arriva a dire che non è semplicemente l'effetto malefico delle nostre bombolette spray o degli allevamenti di bovini che eruttando producono gas serra. Semmai è l'esito della sinergia tra l'uomo e la natura, non dell'uomo contro la natura. Di fatto portava avanti l'«ipotesi Gaia» di James Lovelock, secondo cui è l'interazione tra gli uomini, gli animali e il vivente intero che creano le condizioni perché il Pianeta Terra viva. Perciò, ci ha insegnato Latour, l'abitabilità del pianeta deve diventare un dovere collettivo. Il progetto di una solidarietà universale.

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