Tullio De Piscopo, un uomo chiamato tamburo

Tullio De Piscopo
Tullio De Piscopo
di Federico Vacalebre
Mercoledì 14 Maggio 2014, 17:35 - Ultimo agg. 18:17
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L’uomo chiamato tamburo si racconta, ma Tempo! (Hoepli, pagg. 260, 18 euro) va oltre la storia di un signor musicista per diventare affresco di un’educazione sentimentale, romanzo di formazione generazionale. Sono scugnizzi che vogliono fare gli americani i coprotagonisti del racconto di Tullio De Piscopo , lazzari qualche volta felici, musicisti alla ricerca di qualcosa che tenga insieme le loro radici e la loro voglia di conoscere il mondo. Uomini in blues, in jazz, in tango. Neri a metà, napoletani veraci, ma formato export. La malattia e la paura per la malattia chiudono il libro, che attraversa il dopoguerra e l’Italia, la storia della nostra canzone e del nostro jazz. Una storia di successo, che comincia con una storia di fame, quella di mamma, Giuseppina Zito, da Palermo, orfana: «Mammà, dimmi, ma perché ti tuffi sempre sul pane facendoti anche la scorta sotto il tovagliolo?», le chiese il signore dei batteristi italiani. Perché, spiegò lei, «all’orfanotrofio se non facevi così, non mangiavi», specialmente i più piccini, «che venivano sopraffatti dai più grandi». La sera che la madre è morta De Piscopo era sul palco di Sanremo, con i Ragazzi di Scampia alla ricerca di quel riscatto che lui aveva trovato nella musica. «Percuoteva il nonno, percuoteva il padre, percuotevano lo zio e il fratello», ricorda Pino Aprile nella prefazione. Una storia di ritmo: papà Giuseppe percussionista dell’orchestra Scarlatti, il fratello Romeo, morto in maniera misteriosa, forse assassinato: «Quando aprii gli occhi per la prima volta, intorno a me vidi una miriade di bacchette, piatti da batteria, percussioni di tutti i generi, tamburi di ogni dimensione... insomma, c’è chi nasce con la camicia e chi con le bacchette in mano». «La mia è una storia di sudore, fatica e, come sempre, un pizzico di fortuna», scrive Tullione, classe 1946, alternando toni ironici e melodrammatici come nella tradizione popolare napoletana. È un ragazzo prodigio, anche se per chi lo ascolta è piuttosto un ragazzo tormento: «Trascorrevo le mie giornate con le bacchette in mano. Le usavo anche per strada, mettendo in croce i miei compagni. Già da piccolo facevo una sorta di “scat” e “rappeggiavo” su tutto quello che, in quell’isola felice che era allora Porta Capuana, scorreva davanti ai miei occhi». Papà ha combattuto contro i nazisti nelle Quattro giornate, De Piscopo junior ha combattuto contro un mondo che non voleva credere in lui. Il jazz entra nella sua vita per caso, sta suonando con complessi che si chiamano The Rebels e The Strangers, con cantanti che si chiamano Mario Merola e Nunzio Gallo quando vede in un negozio un lp di Art Blakey. Gianni Cesarini, futuro critico musicale de «Il Mattino», gli dà «preziosissimi consigli... e anche la possibilità di ascoltare i dischi prima di acquistarli. Fu così che fui avvolto dall’Africa di Art Blakey, dai tamburi melodici di Max Roach, dallo swing incalzante di Kenny Clarke... Ecco quello che cercavo e che già sapevo di avere nelle mie mani». Roach lo incontrerà davvero, dividendo con lui tempi e controtempi. Come con Astor Piazzolla, Chet Baker, Gerry Mulligan, Sal Nistico, Tony Scott. E, cambiando suono e genere, Mina e Gaber, Vecchioni e Jannacci (il ritmo di «Quelli che» lo inventò picchiando con una forchetta su di un tavolo), Battiato e Paoli. E Pino Daniele, naturalmente, «un fratello in blues» dice il capitolo che racconta il rendez vous e l’apice del supergruppo in piazza del Plebiscito, il 19 settembre 1981. «Tutta n’ata storia», quella, che Tullio rivede ora con passione pacata, ricordando le emozioni e tacendo delle tensioni che portarono alla separazione, ormai per fortuna archiviata. E un’altra storia ancora è quella del suo successo solista, di «Stop bajon» (uno dei primissimi rap italiani) e di «Andamento lento», delle sue contaminazioni sinfoniche, delle sue curiosità di musicista aperto ad ogni incontro. Una storia che continua: «Qualche mese fa in rete si era sparsa la voce che ero morto. Dovetti fare un selfie per smentire. E ora lancio il Napoli Jazz Project, nuovo supergruppo con Antonio Onorato alla chitarra, Joe Amoruso alle tastiere, Dario Deidda al basso, Gianni Imparato alle percussioni e il giovane Luigi Di Nunzio ai sax».
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